Contro la farsa della COP30. Difendere i territori, globalizzare le lotte

A Belém, nel cuore dell’Amazzonia, si sta svolgendo la COP30: l’ennesima conferenza mondiale sul clima che promette di “salvare il pianeta” senza mai mettere in discussione chi lo devasta. Da trent’anni la scena è la stessa: dichiarazioni solenni, piani di compensazione, foto di gruppo e un bilancio sempre più drammatico. Le emissioni globali aumentano, la concentrazione di capitale e potere cresce e i territori continuano a essere saccheggiati in nome della “transizione verde”.

Dietro le quinte della COP, governi e multinazionali si contendono la gestione del disastro che loro stessi hanno prodotto. Oggi il capitalismo si presenta con volto ecologico: parla di “neutralità climatica”, “mercati del carbonio”, “tecnologie pulite”, ma in realtà prepara una nuova fase di accumulazione basata sul controllo delle risorse naturali e sull’espulsione delle popolazioni dai territori. Il “green deal” è solo la versione aggiornata del vecchio colonialismo: estrarre litio invece di petrolio, privatizzare la biodiversità invece delle foreste, mettere a profitto anche la catastrofe.
Mentre i potenti trattano i limiti del pianeta come voci di un bilancio, migliaia di movimenti contadini, indigeni, femministi e popolari costruiscono la loro alternativa. Dalla Vía Campesina al Movimento Sem Terra, dalle comunità amazzoniche alle reti agroecologiche del Sahel, si leva una voce comune: sovranità alimentare, giustizia climatica, controllo popolare dei territori. Il manifesto diffuso in vista della COP30 parla chiaro: “Non ci sono soluzioni climatiche senza una trasformazione sistemica che smantelli il potere capitalistico e patriarcale.” È il linguaggio della resistenza che nasce dal basso, non dai ministeri né dalle conferenze.
Ma anche dentro questo fronte di lotta si aprono domande difficili. Il “Sud globale” non è più solo vittima: nuove potenze, Cina in testa, replicano modelli estrattivisti e industriali che devastano ecosistemi e comunità. La sfida è costruire una solidarietà tra popoli che non sia cieca di fronte a queste contraddizioni, e che metta al centro l’autonomia dei territori contro ogni forma di dominio, sia occidentale che “emergente”. Per chi lotta dal basso, la questione non è come rendere sostenibile il capitalismo, ma come uscirne. Non bastano accordi, mercati e compensazioni. Servono reti di mutuo appoggio, autogestione dei beni comuni, comunità capaci di decidere collettivamente come produrre e cosa consumare. Non è una questione tecnica, ma politica: chi controlla la terra, l’acqua, l’energia, controlla la vita.

La COP30 sarà, come le precedenti, un grande teatro del potere. Ma fuori dai palazzi cresce un’altra rete, fatta di lotte contadine, assemblee popolari, cooperative autogestite, occupazioni e movimenti per la difesa dei territori. È lì che si costruisce la vera transizione, quella che non si misura in tonnellate di CO₂ ma in libertà, dignità e solidarietà.
Contro la farsa della COP30, globalizziamo la lotta, globalizziamo la speranza.

Totò Caggese

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